Futuro anteriore: perché? “Il nuovo libro Centopagine”
Perché siamo tutti storyteller, e raccontiamo il passato. Ma per raccontare il cambiamento futuro?
L’introduzione al libro:
di Paolo Carmassi e Alessandro Lucchini
1. Perché è un bisogno, di aziende, enti, persone
2. Perché è naturale
3. Perché amiamo sapere cosa accadrà
4. Perché il cambiamento è l’unica costante della vita
5. Perché è un metodo, che ci insegnano i nostri stessi allievi-clienti
6. Perché i problemi si risolvono e gli obiettivi si realizzano più facilmente se si chiamano “risultati attesi”
7. Perché il metodo mette insieme logica e linguaggio
8. Perché narrare humanum est
9. Perché il metodo è nuovo. Oltre lo storytelling: la funzione prefigurativa della scrittura
10. Perché si cambia o “via da” o “verso”
11. Perché va sul potenziale, ben oltre l’obiettivo
12. Perché è un piacere
1. Perché è un bisogno, di aziende, enti, persone
Rigido ma flessibile. Veloce ma preciso. Ricco ma sintetico.
Il paradosso sembra essere il compagno di ogni nostra giornata di lavoro (e di vita).
Le cause di questa accelerazione, un po’ schizofrenica, sono materia di analisi e studio per i sociologi e gli economisti, fra qualche anno per gli storici.
A noi interessa come o cosa può, in questo momento, aiutarci ad avere più tempo, avendone sempre meno a disposizione; più precisione a fronte dell’improvvisazione; più flessibilità contro la rigidità dei sistemi. Più consenso a fronte di resistenze. È un bisogno sentito da tutte le organizzazioni, private e pubbliche.
E ancora di più dell’astratta organizzazione, è sentito dalle persone che guidano e lavorano in essa.
Il rischio di errori e incauti passi è sempre dietro l’angolo. La possibilità di non identificare con chiarezza e concretezza un obiettivo è alta.
E spesso, anche se tutti gli ingredienti sono ben dosati, l’obiettivo resta una chimera. Un obiettivo è come uno spartito. Sta al musicista interpretarlo. E le persone sono guidate dal nostro racconto e non da numeri scritti su slide. Attratte dal carisma narrativo piuttosto che da liste di indicatori e date.
Nel corso di questa lettura, dello scorrere di questa nostra storia, prenderemo esempi da ogni mondo conosciuto o meno: la politica, l’arte militare, la vita di un reparto ospedaliero, l’azienda, la scuola, la famiglia, la strada.
Il nostro obiettivo: dimostrare che il cambiamento è frutto di concretezza, sì, ma assai più di narrazione.
2. Perché è naturale
Siamo cresciuti con le storie, anche quelle delle nostre religioni. E non smettiamo mai di essere attratti dalle storie: il cinema, il teatro, le canzoni, i romanzi, ma anche il gossip. Chi di noi racconterebbe un momento della propria vita come una lista, come un elenco di fatti? E soprattutto chi vorrebbe ascoltarlo? Noi raccontiamo emozioni. Sorpresa. Cambiamento. Cronos e Kairos – tempo cronologico e tempo divino – che si fondono nel racconto e restituiscono senso.
E cosa fanno i grandi leader, se non raccontarci storie? E attraverso esse guidare, interpretare, ristrutturare. Due per tutte: “… ma se uno dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno” e poi “La corruzione spuzza”. Tredici parole, solo tre la seconda e dentro un racconto che invita al cambiamento. Con tutta la forza dell’evocazione. Questi due esempi già ci consentono di liberarci da una trappola: non esistono regole rigide nello storytelling, ma solo metodo o, come sembra in questa prima parte del pontificato di Jorge Bergoglio, talento narrativo.
3. Perché amiamo sapere cosa accadrà
E così come è naturale il racconto nella nostra vita, ci è altrettanto connaturato voler sapere cosa accadrà domani: è nella nostra natura anticipare la storia. È per questo che l’avvio delle nostre giornate è costellato da informazioni sul futuro: gli oroscopi, il meteo, l’andamento del traffico, i trend, fino a chiedere dell’umore del capo prima di incontrarlo. È nel nostro istinto e spirito di sopravvivenza che trova concretezza quest’aspirazione a conoscere, a prefigurare il futuro. Forecast e budget. Piani e protocolli. Tutto sembra organizzato per soddisfare questo bisogno, ma spesso il sapere dove si vuole arrivare non corrisponde al come. È come se una nebbia di parole (gli obiettivi in primis sono parole, come vedremo più avanti) nascondesse insidie e pericoli. E anche se la finalità è chiara, il percorso è tutt’altro che facile. Saltano i tempi. Si accendono conflitti. Interi piani subiscono improvvise sterzate. Tutto questo ha un costo, talvolta invisibile, ma un costo ce l’ha. Economico e, spesso peggio, organizzativo.
Perdere il senso del ruolo, infatti, è ben peggio che perdere denaro. Significa perdere la fiducia dei nostri. Lascia la sensazione di girare a vuoto. Frustra l’impegno dei volonterosi.
Le persone non sono e non saranno mai numeri di matricola. Lo erano nei lager. Lo sono in sistemi sociali che annullano l’essere umano, la sua storia individuale, le sue aspettative, le sue finalità. Riducendoli a numeri, se ne uccide il contributo, reale o potenziale, al cambiamento.
4. Perché il cambiamento è l’unica costante della vita
E invece il cambiamento è l’eredità del futuro. È il gruzzolo di tempo che possiamo investire o depauperare. E se guidiamo persone, poche o tante che siano, la concretezza unita all’evocazione rende l’obiettivo già risultato. Gandhi, Martin Luther King, John Kennedy, Mandela, solo per citare alcuni esempi, e ne parleremo in concreto nelle pagine che seguono.
E da noi, Berlusconi, che al Senato americano racconta la storia di suo padre. Renzi che a Strasburgo cita Telemaco. E poi imprenditori, manager, sindaci, comunicatori pubblici, medici, insegnanti, allenatori, che citano condottieri, atleti, eroi, geni dell’arte, della scienza, dell’industria, della letteratura o dei fumetti, per dar forza a un esempio e accendere la volontà di un cambiamento. Funziona.
5. Perché è un metodo, che ci insegnano i nostri stessi allievi-clienti
Già. La fortuna del fare formazione è che impari sempre. Impari quando studi, prima di insegnare. Impari mentre insegni. Impari quando ascolti una domanda, un dubbio, un’obiezione degli allievi. E i nostri allievi-clienti ci hanno raccontato moltissime storie. Di successo, di insuccesso, di così così, di importanti cambiamenti avvenuti, di altri abbozzati ma incompiuti (presente quando si dice «non c’è storia»?, ecco, proprio quando non c’è cambiamento). L’aula è il nostro trainer.
Ah, certo, impari soprattutto quando sbagli, insegnando. Anzi, impari soprattutto lì. Perché non è che chi insegna non sbaglia. Hai voglia! Questo l’abbiamo capito: mettersi in cattedra e raccontare solo di quelle volte che lui-diceva-e-io-gli-ho-risposto-e-lui-poi-ha-capito-e-quindi-ho-vinto non aiuta l’apprendimento. Più utile raccontare cos’ho capito quella volta che non è andata come speravo. Del resto, come dice John Maxwell, grande esperto di leadership, sometimes you win, sometimes you… learn.
6. Perché i problemi si risolvono e gli obiettivi si realizzano più facilmente se si chiamano “risultati attesi”
Fuori di qui chi pensa che le cose sono solo le cose, e i nomi con cui le chiamiamo non sono importanti. Perderebbe senso, se così fosse, tutta l’attenzione per la comunicazione medica (chi ha un tumore non è un oncologico, chi ha una patologia psichica non va bollato come psicopatico), per quella giudiziaria (chi commette un reato non è un criminale), e per il dialogo di ogni natura e in ogni contesto (chi fuma una canna non è un tossico, chi dice una bugia non è un bugiardo e così via).
Le parole sono significanti, ossia contenitori e trasportatori di significati. Non cambiano direttamente la realtà, ma ne condizionano moltissimo la rappresentazione, la percezione, l’impatto sulla coscienza individuale e collettiva.
Ci aiuta qui recuperare tre etimi:
• problema: dal gr. pro-ballein, gettare davanti. Un oggetto che è stato gettato davanti a noi, e che ci impedisce di proseguire il nostro cammino;
• obiettivo: radice simile; dal lat ob-jicere (ob, davanti + jacere, gettare), mettere davanti. L’oggetto su cui si fissa la vista o l’intelletto. Interessante che, in filosofia, significhi ciò che è fuori dall’anima, in opposizione a subjetto, soggetto, ciò che è nel suo interno;
• risultato: lat, composto da re, addietro, e sultare, saltare, balzare. Parola applicata al suono e ai corpi elastici, che balzano all’indietro, in metafora vale per idee, congetture, impressioni che scaturiscono da osservazioni, da discorsi, da indagini. Risultato, inoltre, viene dal verbo risultare: è il participio passato, ossia qualcosa che, nella nostra mente, è già accaduto. (Come successo: participio passato di succedere > le persone di successo sono quelle che sanno far accadere le cose che hanno in mente).
Problemi e obiettivi sono dunque davanti a noi. I risultati sono già alle nostre spalle. Perfetti o perfettibili che siano, ci hanno già fatto fare esperienza. Con l’aggettivo “attesi”, ci fanno pregustare una soddisfazione già in buona parte conosciuta.
7. Perché il metodo mette insieme logica e linguaggio
En arché en o logos.
In principio erat verbum.
Vangelo, Giovanni, I, 3
Se in principio di tutto il mondo c’era la parola, sia quella pensata, sia quella detta, una ragione c’è di sicuro.
Il metodo descritto in queste pagine parte dalle parole pensate, le esprime in frasi, dette o scritte, e attraverso la potenza della scrittura torna ad agire sul pensiero.
Le strutture del pensiero descritte in questo libro (es. livelli logici, realtà e rappresentazione, definizione di un obiettivo) sono presentate nella loro capacità d’influenzare il cambiamento.
Se rifletto su quali rischi posso correre nella mia vita (incendio, furto, alluvione, infortunio…), posso proteggermene con una buona polizza assicurativa. O con un comportamento diverso da quello che mi esporrebbe al rischio.
Se faccio le prove di evacuazione in una scuola, in un ospedale, in un’azienda, sarò in grado di uscire in modo rapido e ordinato in caso di necessità.
Se mi alleno a sollevare 100 chili di bilanciere, quando dovrò spingere la moto in panne farò molta meno fatica. Se mi alleno in palestra a combattere – contro un avversario, o più avversari, con un solo braccio, senza braccia, a occhi bendati… – sarò in grado di affrontare le situazioni di sicurezza più critiche.
Se io racconto una storia prima che accada nella realtà, sarò in grado di riconoscere i passaggi del cambiamento quando si verificheranno davvero. E anche a influenzarlo, il cambiamento. A sceglierlo, a guidarlo, a trarne beneficio.
8. Perché narrare humanum est
Ascoltiamo storie da quando veniamo al mondo. Ne raccontiamo agli altri da quando abbiamo l’uso della parola.
Tutti amiamo le storie. E per questo che leggiamo romanzi, che andiamo al cinema o a teatro, che ascoltiamo canzoni. È per questo che scriviamo diari, che teniamo il nostro romanzo nel cassetto, e qualche volta abbiamo anche la sfrontatezza per tirarlo fuori.
Chiamalo story-telling, story-writing, narrative approach. Sono molte le definizioni per questo tipo di comunicazione, centrato sul potere seduttivo delle storie, e finalizzato alla stesura di documenti quali: company profile, case study, relazioni, monografie, brochure, dépliant, presentazioni a slide. Sì, certo, anche le slide: perché si può evitare di ammorbare il pubblico girando videate come fossero interminabili pagine di un tomo noiosissimo, e si può costruire la presentazione a slide come una storia. Con un inizio coinvolgente, con uno sviluppo centrale ben argomentato, e con un finale che soddisfi una promessa, o che susciti sorpresa.
9. Perché il metodo è nuovo. Oltre lo storytelling: la funzione prefigurativa della scrittura
Il fatto che ci chiamiamo Palestra della scrittura incide, ovviamente, sul nostro destino. E come potrebbe essere altrimenti, appunto?
Non si tratta solo di raccontare storie che testimoniano un cambiamento avvenuto. Non si tratta solo di trasformare lo stile da descrittivo a metaforico, da denotativo a connotativo. Certo, passare da “Quella è la mia casa” a “Vedi quella finestra? Quella illuminata, al terzo piano? Ecco, lì dentro ieri sera ho pianto le lacrime più amare della mia vita” dà già una bella sferzata al coinvolgimento del destinatario, al superamento dell’autoreferenzialità, attraverso il ribaltamento del punto di vista. Ma questo è quello che fa lo storytelling da molto tempo. È il potere seduttivo delle storie. È la forza della pubblicità, che in trenta secondi racconta l’uso di un prodotto o di un servizio, ben oltre il descriverne le caratteristiche. Ma è cosa già nota. Che c’è di nuovo?
La forza del metodo “Futuro anteriore” sta in due elementi.
A) Il potere della scrittura. Molte ricerche dimostrano che le persone che scrivono i propri obiettivi, personali o professionali, hanno infinte possibilità in più di realizzarli. E se li scrivono e piazzano i fogli nei luoghi giusti (es. il foglio con scritto “Voglio eliminare 3 chili entro due mesi a partire da oggi” va appiccitato sul frigo, non dietro al calorifero), hanno molte più possibilità di avere sempre ben presente l’obiettivo e l’impegno che ne deriva. Questo è il senso del “prefigurare” un cambiamento. Scrivo la storia che voglio realizzare, ma il mio cervello e il mio cuore s’impegnano a viverla come se fosse già realizzata.
B) Una sequenza narrativa che abbandona definitivamente la gabbia della cronologia (passato-presente-futuro). La linea del tempo, infatti, così come l’abbiamo imparata nella grammatica (fui > sono > sarò) è del tutto diversa da come agisce nella nostra vita. Noi non ci spostiamo linearmente attraverso i tre tempi dei verbi. Sulla base degli obiettivi futuri, e delle esperienze passate, noi viviamo solo il presente:
– in previsione di quello che ci aspettiamo > futuro
– e sulla base di quello che abbiamo imparato o fallito > passato
– noi compiamo scelte, prendiamo decisioni, viviamo la nostra vita oggi > presente.
Ecco il senso del titolo, “futuro anteriore”. È il tempo del verbo più benevolmente manipolativo. Un futuro che sposta avanti il pensiero e gli fa vivere come già avvenuta tutta la fatica per ottenerlo.
10. Perché si cambia o “via da” o “verso”
“Via da” e “verso” sono i filtri con cui selezioniamo e incanaliamo i dati nel nostro pensiero riguardo un cambiamento. Ci aiutano a evitare problemi già vissuti o temuti (via da), oppure a muoverci nella direzione di un obiettivo desiderato (verso). È così che affrontiamo ogni cambiamento.
• Voglio imparare l’inglese per evitare figuracce quando sono all’estero. (via da)
• Voglio imparare l’inglese perché nel nuovo lavoro è richiesto un fluent English. (verso)
• Voglio eliminare tre chili perché sono stufo di far fatica a far le scale. (via da)
• Voglio eliminare tre chili perché tra sei mesi ho una gara e voglio essere in forma. (verso)
Chiedi a un amico i suoi progetti: se ti senti rispondere ciò che non ha intenzione di fare, che lavora per non impoverirsi, che cambia il pc perché è stufo di tutti quei guasti, che fa una dieta perché non vuol più avere il fiatone su una rampa di scale, significa che il suo cuore è via da. Se dice che ha un progetto importante, che spera di cambiare lavoro, che sogna di fare questo e quell’altro, il suo cuore è verso.
È una semplificazione, certo. Via da e verso non sono opzioni disgiunte, ma un percorso su cui posizionare anche il ritmo della narrazione. “Segua il mio consiglio, eviterà ogni fallimento” e “Segua il mio consiglio, godrà piena soddisfazione” possono essere due facce della stessa medaglia. Così è la narrazione pubblicitaria: lavorano più sul via da i detersivi, i deodoranti, i dimagranti, i sistemi anticendio, più sul verso le automobili, l’abbigliamento, le navi da crociera. Ma ogni spot, in pratica, è via da un problema e verso una soluzione (es. sporco > pulito).
Il metodo “Futuro anteriore” usa la prospettiva via da nella definizione del perimetro di sicurezza (a che cosa devo fare attenzione, come potrei peggiorare la situazione…) e poi la prospettiva verso nell’abracadabra, nella costruzione fantastica di uno scenario ideale. Si posiziona poi sul punto di equilibrio nel riconoscere gli indicatori del cambiamento atteso.
11. Perché va sul potenziale, ben oltre l’obiettivo
In pubblicità esiste un concetto chiamato “finestra sul futuro”. Immaginiamo che l’obiettivo sia stato già raggiunto, e spingiamo lo sguardo ancora più in là. È qualcosa di simile al post scriptum usato nel direct marketing, il classico velocizzatore di un’azione.
• Ai primi dieci che si saranno iscritti al nostro corso, un libro in omaggio.
È la carota messa davanti al naso del mulo (il bastone, speriamo di averlo buttato per sempre). Non usiamo qualcosa del genere con i figli, di qualunque età?
• Quando avrai finito i compiti, puoi andare a giocare.
• Dopo che ti sarai diplomato, ti aspetta in regalo la moto nuova.
Con “Futuro anteriore” spesso i gruppi s’impegnano inizialmente su un obiettivo, ma strada facendo scoprono che il vero obiettivo è un altro. Oppure scoprono un obiettivo ancora più allettante, per raggiungere il quale è scontato aver raggiunto quello definito in precedenza.
(Notato quanto futuro anteriore in questi ultimi paragrafi?)
12. Perché è un piacere
Perché narrare è l’espressione di un volere. Sono questo i budget delle aziende, i piani formativi delle scuole, i programmi dei partiti, dei governi e delle amministrazioni locali.
È forse anche un dovere, una responsabilità sociale, per consegnare agli altri qualcosa di nostro.
Ma narrare è soprattutto un piacere. È una gioia rendere altri partecipi di una nostra storia. E se io racconto un pezzo di quella storia, e tu ne racconti un altro pezzo, e altri narratori si aggiungono lungo il viaggio, allora la narrazione è collettiva, è sociale. È un reale cambiamento.
Questo è per noi “Futuro anteriore”.
Buona lettura, dunque.
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P.S. Il libro è già acquistabile online. Sappi che poi, anche solo assaggiato il libro, su questi temi potresti voler seguire un corso.
Càpita 🙂
O magari un corso sull’umorismo.
O sul ritmo.
- On 13 Dicembre 2015